Nebbia, la strada è sterrata e in salita. Perché
c’è sempre la nebbia nei sogni che faccio in poltrona, non l’ho mai capito.
Freddo e fatica alle gambe, tocca arrivare in cima, sfidando l’aria gelida con
la coperta che mi avvolge fino a farmi sembrare l’ombra antica di mia nonna che
si vestiva nel dopoguerra con le stoffe che contenevano i viveri mandati dal
cielo. La cabina telefonica è in alto, il vento è contrario e rallenta i miei
passi, ma devo farlo, chiamare mia madre e dirle del mio ultimo esame. In mano
due gettoni. 50 metri ancora, 40. 30. Adesso 10. “Pronto, mamma, mi senti?”. Lei risponde ma non sembra sentirmi, sento la
tv, sento la voce di lei e forse anche quella degli altri, ma non ci sentiamo.
Nessuna colpa, dentro la cabina telefonica fa meno freddo ma il filo è rotto,
non me ne ero accorta, provo a sistemarlo e a ricacciare dentro l’ultimo
gettone rimasto che l’apparecchio telefonico aveva sputato via, ma cade, rotola
fuori l’abitacolo, allungo la mano per raccoglierlo e vengo svegliata dal
frastuono del telefonino che ho in tasca. Mi chiedo: ma quanto è profondo il nostro
inconscio che riesce a farci sognare una cabina telefonica quando abbiamo in
tasca un iPhone?. Sigmund Freud 1- Steve Jobs 0.