Cerca nel blog

venerdì 30 giugno 2017

Come si arriva a 40 - laura isaia


Ci si arriva saltando. Ci si arriva da soli. Ci si arriva con un senso di solitudine da eroina medievale. Vi si arriva portandosi dentro tutto e tutti. A  40 anni ti sembrano già tantissime le cose che hai fatto, ma credi fortemente che le cose migliori le devi ancora fare. I rimpianti dei 39 diventano occasioni perse, che è vero che non torneranno, ma hanno lo stesso peso della pallina di gelato alla fragola che ti cadde in terra all’età di 5 anni! Ci piangesti su tantissimo ma continuasti a vivere e splendere come una fragola con panna. A 40 anni tua madre non è più quella che si arrabbia se stendi male i panni in balcone ma è la mamma più bella del mondo. A 40 anni tuo padre non è più quello che dice “sbrigati, mi fai fare tardi” ma è colui che ti dice “ ti aspetto”.  A 40 anni puoi fare le smorfie come quando ne avevi 4, ti senti più bella di quando ne avevi 12, puoi dire ai maschietti le stesse cose che dicevi loro a 15 anni  e loro ti risponderanno allo stesso identico modo anche se avessero 50 anni. Sei incompiuta come la Pietà Rondanini, sei più fiorita della Venere di Botticelli, ti rivolgi a te stessa come Dante Alighieri a Virgilio, continui ad aspettare Godot alle fermate del tram, ti metti in testa Kafka come fosse un cappello, mastichi De Andrè come sempre, sputi sentenze, inviti a cena Astolfo affinché non perda tempo a recuperare il tuo senno sulla Luna. Senti che puoi partire da sola, puoi partire e non tornare, puoi sbagliare di più e meglio. Sei un treno da prendere che se ne infischia di qualunque linea gialla.

mercoledì 28 giugno 2017

ELEUTEROCOCCO - laura isaia


Ci sono giornate in cui proprio non ce la fai più e giornate in cui pensi che con un buon integratore, l’80% dei tuoi malesseri potrebbe svanire. 
E così ti rechi nella tua erboristeria di fiducia, descrivi accuratamente i sintomi che sembrano uguali a quelli del mese precedente ma che adesso vanno ad aggiungersi al cambio di stagione, al fuso orario, e al surriscaldamento incontrollato della terra e che quindi meritano di essere trattati con qualche pozione magica nuova. 
Non fai in tempo a finire la descrizione dell’ultimo sintomo che il tuo erborista-guru-paraguru-parafarmaceutico (che già ami per il solo fatto che è l’unico essere umano che frequenti occasionalmente e crede ciecamente a ciò provi quando gli dici che non stai bene), ti nomina l’ELEUTEROCOCCO. 
Non riesci neanche a ri-pronunciarne il nome tanto è lo sgomento verso qualcosa che non conosci e che senti nominare per la prima volta. 
È sufficiente sbattere gli occhietti con fare interrogativo per sentire il tuo erborista-guru-paraguru sciorinare la sua spiegazione: “l’eleuterococco è un adattogeno bla bla bla bla bla bla bla….” Non sai ancora pronunciarlo e non stai capendo nulla di ciò che ti dice, ma adattogeno è già entrato con ardore nel tuo vocabolario. 
E mentre lui parla tu ti senti già guarita, finalmente adatta, adattata al mondo e rivedi le tue giornate come non le avevi mai viste: 
- la sveglia che suona e tu che non bestemmi 
- il barattolo della marmellata si apre a primo colpo perché hai una forza interiore che riuscirebbe a svitare anche quello del miele di zagara 
- se il 105 non passa, ti adatti e vai a piedi 
- se a Porta Maggiore non capisci dove attraversare non ti arrabbi e segui l’istinto e per un volta scopri che il tuo istinto non ti conduce sotto le ruote di un treno ma alla fermata del tram. 
- Ti accorgi di aver dimenticato gli auricolari a casa ma  capisci che se non puoi sentire cantare, canti! 
Ritorni in te sulle note di Starman  paghi e metti in borsa la tua confezione gialla di eleuterococco. Ferma alla linea del semaforo, nonostante il frastuono dell’incrocio, riesci a sentire il bip bip del messaggio sul tuo telefono. Lo afferri e senza esitare leggi. È il tuo Lui (non so se virgolettare “tuo” o “lui”), che dopo 72 ore di silenzio ti scrive audacemente: “Ehi piccolina mia, che fai?”. Non hai ancora ingerito nemmeno un grammo di eleuterococco ma già senti i benefici e rispondi adattandoti all’arroganza con eleganza: “ehi! piccolina a chi? Io sono grande adesso”.

mercoledì 21 giugno 2017

Quel mondo senza i Rolling Stones - laura isaia


Oggi il mio operatore telefonico mi ha abbandonato. Niente internet, niente info, niente social, niente telefono, niente bip. Il mondo in una stanza senza internet è un mondo che si misura in metri quadrati, le ore che passano senza sapere cosa accade fuori sono ore che ti permettono di trovare le cose che hai perso dentro: il portaocchiali giallo abbandonato sulla mensola non più raggiungibile dal tuo sguardo perché sempre chino sull’iPhone, le penne di carta che il tipo con cui ti vedevi di nascosto a Natale ti ha regalato ma che non hai mai usato perché Word è meglio anche se lo odi, perché Pages tiene meglio i tuoi ricordi e regge meglio le tue emozioni,  per non parlare di Evernote che ti permette di appuntarti tutto per non dimenticare nulla e non dover tenere niente a mente (inutile chiedersi perché la nostra mente debba essere alleggerita dallo sforzo di ricordare, perché a trovare la risposta si rischierebbe  di dover rivedere il nostro status quo. E adesso un’antica domanda scalcia per imporsi: ma quo è il secondo? Quello col cappello a strisce nere e verdi?). 
Esauritosi l’entusiasmo per i ritrovamenti, il silenzio ripiomba nella stanza. Una maledetta e inutile voglia di Rolling Stones echeggia nell’aria. Vorrei accendere la radio ma non ce l’ho. Di solito uso internet per la musica ma oggi non c’è più un solito a farmi compagnia. Potrei mettermi a piegare la montagna di vestiti che sovrasta la mia sedia, ma sono pigra e all’ordine preferisco lo scavo e così scavando mi imbatto nell’ennesimo ritrovamento della giornata: un’edizione del teatro di B. Brecht con il testo originale a fronte era rimasto seppellito da una montagna di consumismo fatta di straccetti da indossare, stropicciati e mai piegati. Leggo. Non ci resta che leggere quando non possiamo più comunicare. Leggo e mi vien voglia di passare da Berlino prima di andare chissà dove. Quasi quasi chiudo il libro apro il portatile e  prenoto un volo law cost. No, non posso, non ho internet. E nemmeno i soldi. Continuo a leggere. Ma esistono ancora le agenzie di viaggio? Che dite, finisco l’atto unico, indosso un abitino stropicciato e vado a prenotare il viaggio? In questo micro spostamento di pensiero intravedo la mia immagine nello specchio. Sono buffa, schiacciata sulla testata del letto con in mano bertolt brecht. Sembro un francobollo della DDR. Che fame. Che voglia assurda dei cetriolini di Good Bye Lenin. Se sapessi scrivere, scriverei la storia a puntate  dello Spreewald. 
È quasi buio dalla mia finestra, fuori la vita degli altri. Dentro la mia. Il respiro è leggero, la consistenza è quella di un francobollo. 
Certo, un muro, deve essere sembrato qualcosa di più spesso di una linea gialla, ma suvvia, le giornate senza i Rolling Stones non mi sembrano così invivibili.

mercoledì 14 giugno 2017

Quando Platone bussa, l'amore cambia - laura isaia

Se c’è una cosa che so fare è scartare. Scartare i regali e lasciare la carta in giro per casa per giorni credendo forse al potere autodistruttivo delle cose che non servono più. Scartare i sassolini che si infilano nei pacchetti di lenticchie, scartare le ciliegie marce e separarle da quelle buone e succose, scartare le sigarette anche se non fumo, scartare gli scatti fotografici inutili dopo lunghe escursioni urbane e salvarne uno su 300 e avere pure da ridire sulla qualità dell’unico scatto salvato. 
C’è poco da aggiungere: scartare dà soddisfazione. Ho scartato ipotesi, progetti, case, persino proposte di lavoro e ad ogni no, sentivo di regalarmi qualcosa. Con gli uomini non è andata proprio allo stesso modo e così certe volte ne ho morso uno credendolo ciliegia succosa e mi sono ritrovata un verme in bocca, (ovviamente scrivo in prima persona ma non sto parlando di me. Mi ci vedete voi a trattare un uomo come una ciliegia?). Ho scartato camicie con dentro carni che la simmenthal a confronto fa la sua porca figura, ho confuso draghi per topi, ho attraversato viali convinta di avere accanto l’uomo scelto da madre natura per me, per riscoprire al terzo km che a far bene, ne avrei fatto il mio migliore amico. 
Ho scritto lettere d’amore e ho ricevuto lettere d’amore. Ho scritto messaggi assimilabili al flusso di coscienza di Joice e con qualcuno ho letto pagine intere che non dimenticherò mai. 
La Ludmilla che è in me non mi farà mai smettere di amare chi ha letto insieme a me. ACHTUNG! LETTORI A LETTO. NON DISTURBARE. Ma se a bussare è Platone conviene aprire. L’incarto si autodistrugge, l’incanto diviene libertà, l’eros si trascina su un cavallo nero in eterno galoppo e in assoluta armonia un bianco cavallo conduce la tua anima verso un altrove che è in ogni dove. 
E la tua vita diventa una lunga conversazione con un calice di vino in mano, una pagina da scrivere e una da leggere e a fare l’amore sulla biga alata ci si dimentica di qualsiasi linea gialla.


mercoledì 7 giugno 2017

Perché la verità, io non l’ho detta mai - laura isaia

All’età di 10 anni, non capivo perché mi infastidisse il dover fornire ad alcuni  miei insegnanti informazioni sulla mia vita personale. Detestavo le domande su mio padre, su mia madre e la domanda più odiata era quella sul numero di fratelli e sorelle.

 Non era imbarazzo era fastidio. I commenti puntuali e coincisi, stringati e appuntiti su alcuni lavori mi facevano sentire seppur inconsapevolmente,  tutto il peso della società classista in cui ero e sono immersa. Ma che ne sapevo io di Marx? Nulla. Ma caricati anche tu un grosso e pesante sacco sulle spalle e dimmi se non senti il peso pur non sapendo cosa contiene il sacco. Lo senti, vero? Ecco perché le ragioni di Marx le capiscono anche i gatti. 
Alcuni miei insegnanti invece pare che ai gatti fossero allergici e di Marx non sapessero nulla.  E con il registro aperto sull’elenco dei nomi, si divertivano a classificare: avvocato, dottore, commercialista, idraulico, avvocato, operaio, operaioo, oopeeraaaiiiooo operaiooperaiooperaiooperaio, allontanarsidallalineagialla allontanarsidallalineagialla.

“Quanti fratelli hai?” Domanda innocua ma che a me arrivava come una minaccia alla doverosa imparzialità dell’insegnante. Che ne avrebbero fatto della mia verità? Quanto avrebbe influito sulle mie interrogazioni? E sul compito in classe? E soprattutto, dichiarando di essere una caparbia primogenita con un fratellino e una sorellina, cosa ne sarebbe stato del mio primo viaggio immaginario? Sarei poi riuscita a prendere un treno da sola? 
Che odio quelle facce stupite innanzi a chi diceva “sono figlio unico”. 
“Figlio unico?”. 
“Figlio unico” .   
“Hai ben quatto quattro sorelle?”.   
Fu così che, nonostante l’amore per mio fratello e per mia sorella,  la professoressa di musica seppe che io ero figlia unica, quella di disegno che avevo 11 fratelli senza appartenere ad una famiglia neocatacumenale, quello di educazione tecnica che ero la terza di tre gemelline di cui una addirittura, bionda. 
Vi lascio immaginare la delusione di mamma quando ai colloqui con i  professori apprese di avere una figlia bugiarda. 
E sì, fu con le mancate verità che mi guadagnai il mio primo treno in partenza.


link immagine <a href="http://www.freepik.com">Designed by Freepik</a>