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Racconti Disadattati in Blues

Autrice: Toni Cade Bambara  Titolo: Gorilla, Amore mio Casa editrice:  BIG SUR


Che lei, Toni Cade Bambara, sia stata un’attivista nord africana e una documentarista, non lo si evince dalle note biografiche,  ma da come ci si sente, mentre si leggono i suoi racconti:  immersi nella vita a ritmo di blues e jazz. Senti le voci femminili lottare, anzi ti sembra di vederle e di poterle toccare.  Senti la voce rauca di una donna sfacciata con cui vorresti farci subito anche tu quattro chiacchiere leggere, come la mano su un tamburello o su un bongo (Il mio caro Bovanne), senti gli strilli di Ollie: fatemi gli auguri sennò faccio un macello ( Tanti Auguri), le urla di una mamma: va bene che frequenti i maschi… . ma farci pure a botte. E ti sei andata a scegliere il più matto di tutti (Testa di legno). Ma la voce che  non dimentichi, quella che senti echeggiare dentro come fosse la tua, è la voce della bambina che guardando dentro una cartella ingiallita scopre di provenire da una famiglia disadattata e di  vivere in un quartiere di disadattati, e si innamora della nuova scoperta fino a quando il padre non si è tolto  la cinghia per farle vedere quanto fosse disadattato.  In ogni racconto ciascuno è il più matto di tutti.  E non è difficile schierarsi e combattere e pensare come loro, ci si sente subito l’avvocato difensore di quel corteo che lotta contro gli stereotipi di genere,  capeggiato da quella vocina che sembra urlare al megafono: dovrebbe essere contenta mamma che non deve farmi  un abito di organza bianco con un fioccone. E se si va al cinema per vedere un film di gorilla, nessuno dovrebbe accontentarsi e non farsi risarcire per aver visto un film su Gesù: “E così inizia il film e pare subito una musica di chiesa, ma non parla di Gorilla. Parla di Gesù. Lì vorrei ammazzare qualcuno, mica perché ho qualcosa contro Gesù. Solo che se decidi di vedere un film di gorilla non vuoi che ti rompono le palle col catechismo”.  Tutti matti, dicevamo.  Matti e disadattati. Dolcemente disadattati.


Robledo. Il plausibile è rivoluzione.
 La parola è un condominio.  Non  lo dico io, lo dice Daniele Zito, nel bel mezzo del suo libro, del suo secondo romanzo. Un romanzo necessario, affinché la storia non dimentichi l’operato di Robledo.  Come Manzoni, Zito, simula un ritrovamento e sempre come Manzoni, ne certifica la veridicità.  E se l’illustre autore della Storia della colonna infame ci consegna le chiavi di un nuovo patto tra scrittore e lettore, tra il reale e il pensiero, attraverso la categoria del verosimile, Zito,  supera a sinistra, senza fretta e senza freccia e rinvigorisce il patto con una nuova categoria: il plausibile. L’idea che ciò che è plausibile meriti di essere preso in considerazione è un’idea rivoluzionaria. È un romanzo sul lavoro, sul lavoro come maschera da indossare per non andare a spasso nudi; sui lavoratori. Sui lavoratori? Ma che dico?  sui disoccupati travestiti da lavoratori.  Disoccupati occupati che sembrano bambini che giocano a nascondino, che si muovono fintamente spensierati e si battono, nella loro corsa individuale, per un avvincente “libera per tutti!”.  Sono personaggi per cui la realtà è un luogo orribile e come soldati, si armano di divise, per marciare e calpestare l’oblio.Tutti alla ricerca di una fine, che sia  il meno mistica possibile e più  plausibile del reale e perché no, suggestiva. Zito ci accompagna in questo ascensore sociale, e mentre si diverte a volteggiare sopra il capo di chi ancora deve morire, costruisce un omaggio a tutti coloro i quali abitano sul bordo della vita. Ogni pagina custodisce un unico monolite: siamo uguali, siamo desolatamente uguali, uguali fino allo sfinimento. Uguaglianza che a tratti infastidisce a tratti salva.  Sono pagine fatte da schiavi felici di esserlo perché forse ci si scopre più ragionevoli nell’essere schiavi felici che uomini liberi infelici.  Lo stile è quello di chi dice che la parola è un condominio, e se non ci credete, leggetelo e ne riparleremo.



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