Cerca nel blog

sabato 30 giugno 2018

Buon compleanno - non ho mica vent'anni ne ho molti di meno.

Lo scorso anno vi ho invaso con il mio effimero entusiasmo per l'arrivo dei 40, quest’anno vi risparmio la finta euforia dei 41 e mi preparo a navigare in altri mari ed approdare in nuovi porti. Come dite?! I porti sono chiusi?! Fanculo
Ho la nausea. E non lo dico da  un attico, lo dico dai 35 metri quadri del mio monolocale in affitto  immerso nel quartiere multietnico della capitale. 
Fanculo sul serio perché questa dilagante deriva razzista mi fa schifo. 

Il compleanno resta il giorno della resa dei conti, è il giorno in cui ci si diverte a dialogare con il proprio ego smisurato, una specie di capodanno personale, soggettivo e individualista,  dove l’ io diventa l’unità di misura del resto.

Niente sconti. È stato tutto in salita. Ho conosciuto dei nuovi esserini meravigliosi che si chiamano studenti, pieni di domande, di noie da combattere, guerrieri di carta, spigolosi, morbidi, fragili. Da amare. 
Mi sono lasciata adottare da una nuova famiglia fatta di colleghe straordinarie e ogni giorno mi chiedevo se amavo di più la biondina, la biondona, la mora, la riccia, la rossa (e sì, manco la rossa mi sono fatta mancare) o quella col capello corto che ormai è nel mio cuore da anni. 
La stanchezza non è mancata. Rabbia, tanta. Odio, un po’. 
Ho riabbracciato sotto la pioggia Antonio, Lorenzo e poi Santa. Ed è stato bello. 
Ho fatto una cena almodoroviana o forse due e adesso aspetto la terza. 
Ho preso la tessera elettorale che non toccavo da anni e ho fatto 1200 km per andare a votare un partito che ahimè non ha superato lo sbarramento del 4 per cento e sono fiera di averlo fatto. 
A due mesi dal voto ci siamo svegliati con un governo leghista, fascista, omofobo e razzista e con un lusso a cinque stelle che non posso permettermi. 
Qualche amica è diventata mamma, qualche amico papà, io no, non ce l’ho fatta. 
Ho visto nascere uno spot sociale di 60 secondi dalle mani dei miei studenti ed è stata una magia condivisa con chi ha reso possibile tutto ciò.  
Mia mamma ha compiuto 60 anni, mio nipote ha imparato a scrivere, legge le "Favole al telefono" di Rodari e si domanda quando potrà iniziare a prendere decisioni da solo. 
Ho ripreso ad occupare le piazze e parlare di politica. Ho litigato. 
Ho festeggiato il compleanno di Michele, di Paola, di Leo, di Carlo, di Marta, di Già. 
Ho sfoderato la chitarra senza suonarla insieme ad una compagna di battaglie invincibile con cui ho imparato il giro di do. 
Ho chi mi tranquillizza su Messenger quando il Re è in campo. 
Ho incontrato un personal trainer che sento che mi cambierà la vita. 
Ho scoperto che in palestra non ci sono solo muscoli ma paleontologi, biologi, economisti, ballerini e ragazze stupende. 
Burro di arachidi” è la mia nuova parola d’ordine,  quella che sostituirebbe Fidelio in un remake di "Eyes Wide Shuts", o per i meno audaci, le versione vegana dell’Ultimo tango a Parigi, per i nutrizionisti la marcia in più per chi è sottopeso.   

Quante cose si pensano nei giorni di festa. Troppe. Anche se in fondo il giorno del mio compleanno altro non è, che la vigilia di Wimbledon.

Prima o poi farò una festa per stare tutti insieme, per riabbracciare chi non vedo da anni, per conoscere qualcuno dei miei contatti virtuali,  e spegnere le candeline insieme a tutte quelle amiche e amici che sopportano i miei alti e bassi e le mie teorie bizzarre. 


A presto e scusate se non vi ho portato a ballare, non ho mica vent'anni ne ho molti di meno. 





venerdì 1 giugno 2018

108 metri


108 metri. Leggerlo è come camminare sui binari morti di una classe operaia precaria ormai depauperata della coscienza necessaria, senza destinazione scritta sul biglietto,  di passaggio,  senza paradiso. Già “Amianto” mi aveva inchiodato nella toscana operaia tra Livorno e Piombino, avevo pianto per Renato, leggendo sentivo il rumore sordo delle pacche sulla spalla del padre operaio al figlio studente e la storia mi attraversava costringendo me lettrice, ad abbassare lo sguardo e sotto non vi trovavo più le scarpe comprate oggi, ma quelle compratemi da mio padre, con il sacrificio, lo sforzo semplice sopra l’incoscienza imbarazzata di me studentessa. E Piombino mi pareva il sud in cui sono nata e sentivo l’odore dell’eternit proveniente da sotto il mio balcone. Un libro in cui il nesso tra i modi di produzione e  le forme di coscienza si facevano schegge che avvelenano le piastrine. Il curriculum di Renato era fatto di timbri, tessere sindacali, appunti, cortisone e morfina mentre Nada cantava Ma che freddo fa. Il curriculum di Alberto, il figlio, è fatto di liceo, università, redazioni, traduzioni cessi e pizzerie britanniche e di sogni torbidi disinfettati dalla vodka. Alberto con le spalle da operaio e le mani da scrittore, ci conduce dove non vorremmo mai trovarci: nel disagio. Nel disagio di un impianto borghese su una carcassa operaia, nel disagio di chi in testa s’è messo Lo Straniero di Camus e La nausea di Sartre ma ai piedi ha gli scarponi infortunistici che gli ha regalato il padre. Alberto è di parola: “Babbo,  ‘un ti preoccupà, a fa’ il cane da lecco d’un signore, te ‘un mi vedrai mai”! E pure l’Università tradisce le aspettative del giovane e promettente studente, piena com’è di sociologi che parlano di un mondo nuovo fatto di opportunità fluide. Un ‘brodo’ avrebbe detto suo padre: “gente liquida, guai a fidarsi”. E Alberto non si fida, e anche la sua ironia “puzza di stalla e di vino d’un tempo, è greve e rumorosa, mica sta roba fruttata, succosa, agile al palato, che va tanto di moda adesso”.  Centootto metri di parole intrise di neorealismo e istinto di classe, fucking hell di primo mattino e pizze che non devono tornare indietro.