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mercoledì 31 maggio 2017

Robledo. Il plausibile è rivoluzione

La parola è un condominio.  Non  lo dico io, lo dice Daniele Zito, nel bel mezzo del suo libro, del suo secondo romanzo. Un romanzo necessario, affinché la storia non dimentichi l’operato di Robledo.  Come Manzoni, Zito, simula un ritrovamento e sempre come Manzoni, ne certifica la veridicità.  E se l’illustre autore della Storia della colonna infame ci consegna le chiavi di un nuovo patto tra scrittore e lettore, tra il reale e il pensiero, attraverso la categoria del verosimile, Zito,  supera a sinistra, senza fretta e senza freccia e rinvigorisce il patto con una nuova categoria: il plausibile. L’idea che ciò che è plausibile meriti di essere preso in considerazione è un’idea rivoluzionaria. È un romanzo sul lavoro, sul lavoro come maschera da indossare per non andare a spasso nudi; sui lavoratori. Sui lavoratori? Ma che dico?  sui disoccupati travestiti da lavoratori.  Disoccupati occupati che sembrano bambini che giocano a nascondino, che si muovono fintamente spensierati e si battono, nella loro corsa individuale, per un avvincente “libera per tutti!”.  Sono personaggi per cui la realtà è un luogo orribile e come soldati, si armano di divise, per marciare e calpestare l’oblio.Tutti alla ricerca di una fine, che sia  il meno mistica possibile e più  plausibile del reale e perché no, suggestiva. Zito ci accompagna in questo ascensore sociale, e mentre si diverte a volteggiare sopra il capo di chi ancora deve morire, costruisce un omaggio a tutti coloro i quali abitano sul bordo della vita. Ogni pagina custodisce un unico monolite: siamo uguali, siamo desolatamente uguali, uguali fino allo sfinimento. Uguaglianza che a tratti infastidisce a tratti salva.  Sono pagine fatte da schiavi felici di esserlo perché forse ci si scopre più ragionevoli nell’essere schiavi felici che uomini liberi infelici.  Lo stile è quello di chi dice che la parola è un condominio, e se non ci credete, leggetelo e ne riparleremo.


martedì 30 maggio 2017

Piazza Vittorio - laura isaia

Mi chiedo spesso perché amo vivere a piazza Vittorio. Le luci rosse dei locali cinesi e le spezie nauseabonde o afrodisiache dei ristoranti indiani fanno da scenario surreale agli scrittori di passaggio, ai registi di zona, agli avvocati silenziosi, ai turisti, ai matti, ai vagabondi, ai dimenticati. Ci trovi gli studenti, i corsi di arabo, il mercato, i fiorai, le scuole di musica, i tangheri in piazza, i vecchi bar venduti ad un oriente sporco quanto l’occidente, i bar che sopravvivono, i bar che ti traghettano, un piccolo cinematografo per documentaristi testardi, una cappelleria che si trasforma e insieme al brunch ti regala musica jazz. Ci sono i Residenti e i Resistenti. E poi ci sono io.  Forse è osservare tutto ciò da una finestra del quinto piano che me lo rende magico. Forse è la luce che entra da quassù che mi scalda il cuore perché mi sento vicina  al sole e mai lontana dalla luna. Ma non è questo che mi trattiene. Termini. La stazione Termini, da qui non la vedo ma la sento. Niente è più confortevole per chi vive con un piede dentro e uno fuori, per chi è in eterno dubbio tra tornare, restare, partire, che sentire gli avvisi dei treni in partenza e in arrivo.  Treno in arrivo al binario 11, allontanarsi dalla linea gialla. Treno in partenza al binario 24, allontanarsi dalla linea gialla. Allontanarsi dalla linea gialla. Allontanarsi dalla linea gialla…