La parola è un
condominio. Non lo dico io, lo dice Daniele Zito, nel bel
mezzo del suo libro, del suo secondo romanzo. Un romanzo necessario, affinché
la storia non dimentichi l’operato di Robledo.
Come Manzoni, Zito, simula un ritrovamento e sempre come Manzoni, ne
certifica la veridicità. E se l’illustre
autore della Storia della colonna infame
ci consegna le chiavi di un nuovo patto tra scrittore e lettore, tra il reale e
il pensiero, attraverso la categoria del verosimile,
Zito, supera a sinistra, senza fretta e
senza freccia e rinvigorisce il patto con una nuova categoria: il plausibile. L’idea che ciò che è plausibile
meriti di essere preso in considerazione è
un’idea rivoluzionaria. È un romanzo sul lavoro, sul lavoro come maschera
da indossare per non andare a spasso nudi; sui lavoratori. Sui lavoratori? Ma
che dico? sui disoccupati travestiti da lavoratori. Disoccupati occupati che sembrano bambini che
giocano a nascondino, che si muovono fintamente spensierati e si battono, nella
loro corsa individuale, per un avvincente “libera per tutti!”. Sono personaggi per cui la realtà è un luogo
orribile e come soldati, si armano di divise, per marciare e calpestare
l’oblio.Tutti alla ricerca di una fine, che sia il meno mistica possibile e più plausibile del reale e perché no, suggestiva. Zito
ci accompagna in questo ascensore sociale,
e mentre si diverte a volteggiare
sopra il capo di chi ancora deve morire, costruisce un omaggio a tutti
coloro i quali abitano sul bordo della
vita. Ogni pagina custodisce un unico monolite: siamo uguali, siamo desolatamente uguali, uguali fino allo sfinimento.
Uguaglianza che a tratti infastidisce a tratti salva. Sono pagine fatte da schiavi felici di esserlo perché forse ci si scopre più
ragionevoli nell’essere schiavi felici che uomini liberi infelici. Lo stile è quello di chi dice che la parola è un condominio, e se non ci
credete, leggetelo e ne riparleremo.
Mi chiedo spesso perché amo vivere a piazza
Vittorio. Le luci rosse dei locali cinesi
e le spezie nauseabonde o afrodisiache dei ristoranti indiani fanno da scenario
surreale agli scrittori di passaggio, ai registi di zona, agli avvocati
silenziosi, ai turisti, ai matti, ai vagabondi, ai dimenticati. Ci trovi gli
studenti, i corsi di arabo, il mercato, i fiorai, le scuole di musica, i tangheri
in piazza, i vecchi bar venduti ad un oriente sporco quanto l’occidente, i bar
che sopravvivono, i bar che ti traghettano, un piccolo cinematografo per
documentaristi testardi, una cappelleria che si trasforma e insieme al brunch
ti regala musica jazz. Ci sono i Residenti e i
Resistenti. E poi ci sono io. Forse è
osservare tutto ciò da una finestra del quinto piano che me lo rende magico.
Forse è la luce che entra da quassù che mi scalda il cuore perché mi sento vicina al sole e mai lontana dalla luna. Ma non è questo che mi trattiene.
Termini. La stazione Termini, da qui non
la vedo ma la sento. Niente è più confortevole per chi vive con un piede dentro
e uno fuori, per chi è in eterno dubbio tra tornare, restare, partire, che
sentire gli avvisi dei treni in partenza e in arrivo. Treno in arrivo al binario 11, allontanarsi
dalla linea gialla. Treno in partenza al binario 24, allontanarsi dalla linea
gialla. Allontanarsi dalla linea gialla. Allontanarsi dalla linea gialla…