Il mare di Maggio ne è pieno. Quello di Settembre
ancor più. Tutti da bambini ne abbiamo cercata almeno una.
C’era chi le
collezionava, chi le raccoglieva e le catalogava per colore o forma: nel
secchio bianco quelle a striate di giallo e marrone e nel secchio giallo con le
angurie stampate, le conchiglie meno rugose. Chi ne stringeva una tra le mani
per tutto il viaggio di ritorno dal mare. Chi ne prendeva tante e la prima la
regalava alla mamma e le altre le riposizionava in spiaggia una vicina
all’altra, sperando forse che facessero gruppo, che diventassero amiche, che si
organizzassero in qualche forma di comunità clandestina. La comunità delle
conchiglie. Gusci belli come gioielli, disposti in ordine sparso, con dentro la
voce del mare rimasta negli interstizi dell’involucro cristallino.
Due anni fa avrei dovuto partecipare ad una festa,
con e per, i bambini del nido Rebibbia. Sì, i bambini del nido di Rebibbia, i
nostri piccoli figli, i figli di una società malata. La festa non si fece,
figuriamoci se con tutti i diritti persi, le felicità incappiate e il futuro
incapsulato dentro lo scrigno di un destino avverso, sarebbe stata possibile
una festa. Nonostante ciò ci impegnammo in una raccolta di abiti e giocattoli e
soprattutto, cosa ancor più preziosa, raccogliemmo le lettere che ragazzini di
11- 12 anni avevano scritto per loro. Ricordo che in quei giorni mi sforzai
invano di trovare per loro un dono che andasse oltre il senso dell’utile o il
limite del gioco, ma nessuna idea buona mi venne in mente. Cercavo un’idea che
li liberasse, o che liberasse me da quel senso di impotenza e di fragilità. Oggi,
nel tentativo di mettere ordine in un angolo del mio armadio, ho ritrovato
nella borsa di tela, dove tengo tutti i miei bikini spaiati, una decine di
conchiglie. Quegli involucri fragili che i piccoli molluschi sono costretti a
crearsi da soli, acchiappando il calcio contenuto tra l’acqua e la terra dove
vivono e, strato dopo strato, ne fanno cristallo protettivo, hanno sempre
conquistato la mia attenzione. E ogni volta che un bambino corre verso la
mamma, incredulo e felice del ritrovamento di una conchiglia, le sta solo dicendo: “mamma proteggimi”. Mamma
fammi da guscio ancora un po’. E poi c’è la corsa dei bambini che il guscio
devono farselo da soli. Strato dopo strato. Duro e fragile col mare mosso dentro.
Come i bambini di Rebibbia. Oggi ho fatto il gesto magico, il gesto che non
cambierà per nulla il mondo, non cambierà la vita di nessun bambino e di
nessuna conchiglia ma che ha liberato me per un paio d’ore dalla paura della
fragilità: ho messo le conchiglie dentro una stoffa rossa, sono andata giù, giù
fino agli inferi della metro B e messo il sacchettino rosso dentro il primo
vagone per Rebibbia. Treno per Rebibbia in arrivo, allontanarsi dalla linea
gialla.
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