Ci si arriva saltando. Ci
si arriva da soli. Ci si arriva con un senso di solitudine da eroina medievale.
Vi si arriva portandosi dentro tutto e tutti. A
40 anni ti sembrano già tantissime le cose che hai fatto, ma credi
fortemente che le cose migliori le devi ancora fare. I rimpianti dei 39
diventano occasioni perse, che è vero che non torneranno, ma hanno lo stesso
peso della pallina di gelato alla fragola che ti cadde in terra all’età di 5 anni!
Ci piangesti su tantissimo ma continuasti a vivere e splendere come una fragola
con panna. A 40 anni tua madre non è più quella che si arrabbia se stendi male
i panni in balcone ma è la mamma più bella del mondo. A 40 anni tuo padre non è
più quello che dice “sbrigati, mi fai fare tardi” ma è colui che ti dice “ ti
aspetto”. A 40 anni puoi fare le smorfie
come quando ne avevi 4, ti senti più bella di quando ne avevi 12, puoi dire ai
maschietti le stesse cose che dicevi loro a 15 anni e loro ti risponderanno allo stesso identico
modo anche se avessero 50 anni. Sei incompiuta come la Pietà Rondanini, sei più
fiorita della Venere di Botticelli, ti rivolgi a te stessa come Dante Alighieri
a Virgilio, continui ad aspettare Godot alle fermate del tram, ti metti in
testa Kafka come fosse un cappello, mastichi De Andrè come sempre, sputi
sentenze, inviti a cena Astolfo affinché non perda tempo a recuperare il tuo
senno sulla Luna. Senti che puoi partire da sola, puoi partire e non tornare,
puoi sbagliare di più e meglio. Sei un treno da prendere che se ne infischia di
qualunque linea gialla.
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venerdì 30 giugno 2017
mercoledì 28 giugno 2017
ELEUTEROCOCCO - laura isaia
Ci sono giornate in cui
proprio non ce la fai più e giornate in cui pensi che con un buon integratore,
l’80% dei tuoi malesseri potrebbe svanire.
E così ti rechi nella tua
erboristeria di fiducia, descrivi accuratamente i sintomi che sembrano uguali a
quelli del mese precedente ma che adesso vanno ad aggiungersi al cambio di
stagione, al fuso orario, e al surriscaldamento incontrollato della terra e che
quindi meritano di essere trattati con qualche pozione magica nuova.
Non fai in
tempo a finire la descrizione dell’ultimo sintomo che il tuo erborista-guru-paraguru-parafarmaceutico
(che già ami per il solo fatto che è l’unico essere umano che frequenti
occasionalmente e crede ciecamente a ciò provi quando gli dici che non stai
bene), ti nomina l’ELEUTEROCOCCO.
Non riesci neanche a ri-pronunciarne il nome
tanto è lo sgomento verso qualcosa che non conosci e che senti nominare per la
prima volta.
È sufficiente sbattere gli occhietti con fare interrogativo per
sentire il tuo erborista-guru-paraguru sciorinare la sua spiegazione:
“l’eleuterococco è un adattogeno bla bla bla bla bla bla bla….” Non sai ancora
pronunciarlo e non stai capendo nulla di ciò che ti dice, ma adattogeno è già
entrato con ardore nel tuo vocabolario.
E mentre lui parla tu ti senti già
guarita, finalmente adatta, adattata al mondo e rivedi le tue giornate come non
le avevi mai viste:
- la sveglia che suona e tu che non bestemmi
- il barattolo
della marmellata si apre a primo colpo perché hai una forza interiore che riuscirebbe
a svitare anche quello del miele di zagara
- se il 105 non passa, ti adatti e
vai a piedi
- se a Porta Maggiore non capisci dove attraversare non ti arrabbi e
segui l’istinto e per un volta scopri che il tuo istinto non ti conduce sotto
le ruote di un treno ma alla fermata del tram.
- Ti accorgi di aver dimenticato
gli auricolari a casa ma capisci che se
non puoi sentire cantare, canti!
Ritorni in te sulle note di Starman paghi e metti in borsa la tua confezione
gialla di eleuterococco. Ferma alla linea del semaforo, nonostante il frastuono
dell’incrocio, riesci a sentire il bip bip del messaggio sul tuo telefono. Lo
afferri e senza esitare leggi. È il tuo Lui (non so se virgolettare “tuo” o
“lui”), che dopo 72 ore di silenzio ti scrive audacemente: “Ehi piccolina mia,
che fai?”. Non hai ancora ingerito nemmeno un grammo di eleuterococco ma già
senti i benefici e rispondi adattandoti all’arroganza con eleganza: “ehi! piccolina a chi? Io sono grande adesso”.
mercoledì 21 giugno 2017
Quel mondo senza i Rolling Stones - laura isaia
Esauritosi l’entusiasmo
per i ritrovamenti, il silenzio ripiomba nella stanza. Una maledetta e inutile
voglia di Rolling Stones echeggia nell’aria. Vorrei accendere la radio ma non
ce l’ho. Di solito uso internet per la musica ma oggi non c’è più un solito a
farmi compagnia. Potrei mettermi a piegare la montagna di vestiti che sovrasta
la mia sedia, ma sono pigra e all’ordine preferisco lo scavo e così scavando mi
imbatto nell’ennesimo ritrovamento della giornata: un’edizione del teatro di B.
Brecht con il testo originale a fronte era rimasto seppellito da una montagna
di consumismo fatta di straccetti da indossare, stropicciati e mai piegati.
Leggo. Non ci resta che leggere quando non possiamo più comunicare. Leggo e mi
vien voglia di passare da Berlino prima di andare chissà dove. Quasi quasi
chiudo il libro apro il portatile e
prenoto un volo law cost. No, non posso, non ho internet. E nemmeno i
soldi. Continuo a leggere. Ma esistono ancora le agenzie di viaggio? Che dite,
finisco l’atto unico, indosso un abitino stropicciato e vado a prenotare il
viaggio? In questo micro spostamento di pensiero intravedo la mia immagine
nello specchio. Sono buffa, schiacciata sulla testata del letto con in mano
bertolt brecht. Sembro un francobollo della DDR. Che fame. Che voglia assurda
dei cetriolini di Good Bye Lenin. Se sapessi scrivere, scriverei la storia a
puntate dello Spreewald.
È quasi buio
dalla mia finestra, fuori la vita degli altri. Dentro la mia. Il respiro è
leggero, la consistenza è quella di un francobollo.
Certo, un muro, deve essere
sembrato qualcosa di più spesso di una linea gialla, ma suvvia, le giornate
senza i Rolling Stones non mi sembrano così invivibili.
mercoledì 14 giugno 2017
Quando Platone bussa, l'amore cambia - laura isaia
Se c’è una cosa che so fare è
scartare. Scartare i regali e lasciare la carta in giro per casa per giorni
credendo forse al potere autodistruttivo delle cose che non servono più.
Scartare i sassolini che si infilano nei pacchetti di lenticchie, scartare le
ciliegie marce e separarle da quelle buone e succose, scartare le sigarette
anche se non fumo, scartare gli scatti fotografici inutili dopo lunghe
escursioni urbane e salvarne uno su 300 e avere pure da ridire sulla qualità
dell’unico scatto salvato.
C’è poco da aggiungere: scartare dà soddisfazione.
Ho scartato ipotesi, progetti, case, persino proposte di lavoro e ad ogni no,
sentivo di regalarmi qualcosa. Con gli uomini non è andata proprio allo stesso
modo e così certe volte ne ho morso uno credendolo ciliegia succosa e mi sono
ritrovata un verme in bocca, (ovviamente scrivo in prima persona ma non sto
parlando di me. Mi ci vedete voi a trattare un uomo come una ciliegia?). Ho
scartato camicie con dentro carni che la simmenthal a confronto fa la sua porca
figura, ho confuso draghi per topi, ho attraversato viali convinta di avere
accanto l’uomo scelto da madre natura per me, per riscoprire al terzo km che a
far bene, ne avrei fatto il mio migliore amico.
Ho scritto lettere d’amore e ho
ricevuto lettere d’amore. Ho scritto messaggi assimilabili al flusso di
coscienza di Joice e con qualcuno ho letto pagine intere che non dimenticherò
mai.
La Ludmilla che è in me non mi farà mai smettere di amare chi ha letto
insieme a me. ACHTUNG! LETTORI A LETTO. NON DISTURBARE. Ma se a bussare è
Platone conviene aprire. L’incarto si autodistrugge, l’incanto diviene libertà,
l’eros si trascina su un cavallo nero in eterno galoppo e in assoluta armonia
un bianco cavallo conduce la tua anima verso un altrove che è in ogni dove.
E
la tua vita diventa una lunga conversazione con un calice di vino in mano, una
pagina da scrivere e una da leggere e a fare l’amore sulla biga alata ci si
dimentica di qualsiasi linea gialla.
mercoledì 7 giugno 2017
Perché la verità, io non l’ho detta mai - laura isaia
All’età di 10 anni, non
capivo perché mi infastidisse il dover fornire ad alcuni miei insegnanti informazioni sulla mia vita
personale. Detestavo le domande su mio padre, su mia madre e la domanda più
odiata era quella sul numero di fratelli e sorelle.
Non era imbarazzo era fastidio. I commenti puntuali e coincisi, stringati e appuntiti su alcuni lavori mi facevano sentire seppur inconsapevolmente, tutto il peso della società classista in cui ero e sono immersa. Ma che ne sapevo io di Marx? Nulla. Ma caricati anche tu un grosso e pesante sacco sulle spalle e dimmi se non senti il peso pur non sapendo cosa contiene il sacco. Lo senti, vero? Ecco perché le ragioni di Marx le capiscono anche i gatti.
Alcuni miei insegnanti invece pare che ai gatti fossero allergici e di Marx non sapessero nulla. E con il registro aperto sull’elenco dei nomi, si divertivano a classificare: avvocato, dottore, commercialista, idraulico, avvocato, operaio, operaioo, oopeeraaaiiiooo operaiooperaiooperaiooperaio, allontanarsidallalineagialla allontanarsidallalineagialla.
“Quanti fratelli hai?” Domanda innocua ma che a me arrivava come una minaccia alla doverosa imparzialità dell’insegnante. Che ne avrebbero fatto della mia verità? Quanto avrebbe influito sulle mie interrogazioni? E sul compito in classe? E soprattutto, dichiarando di essere una caparbia primogenita con un fratellino e una sorellina, cosa ne sarebbe stato del mio primo viaggio immaginario? Sarei poi riuscita a prendere un treno da sola?
Che odio quelle facce stupite innanzi a chi diceva “sono figlio unico”.
“Figlio unico?”.
“Figlio unico” .
“Hai ben quatto quattro sorelle?”.
Fu così che, nonostante l’amore per mio fratello e per mia sorella, la professoressa di musica seppe che io ero figlia unica, quella di disegno che avevo 11 fratelli senza appartenere ad una famiglia neocatacumenale, quello di educazione tecnica che ero la terza di tre gemelline di cui una addirittura, bionda.
Vi lascio immaginare la delusione di mamma quando ai colloqui con i professori apprese di avere una figlia bugiarda.
E sì, fu con le mancate verità che mi guadagnai il mio primo treno in partenza.
Non era imbarazzo era fastidio. I commenti puntuali e coincisi, stringati e appuntiti su alcuni lavori mi facevano sentire seppur inconsapevolmente, tutto il peso della società classista in cui ero e sono immersa. Ma che ne sapevo io di Marx? Nulla. Ma caricati anche tu un grosso e pesante sacco sulle spalle e dimmi se non senti il peso pur non sapendo cosa contiene il sacco. Lo senti, vero? Ecco perché le ragioni di Marx le capiscono anche i gatti.
Alcuni miei insegnanti invece pare che ai gatti fossero allergici e di Marx non sapessero nulla. E con il registro aperto sull’elenco dei nomi, si divertivano a classificare: avvocato, dottore, commercialista, idraulico, avvocato, operaio, operaioo, oopeeraaaiiiooo operaiooperaiooperaiooperaio, allontanarsidallalineagialla allontanarsidallalineagialla.
“Quanti fratelli hai?” Domanda innocua ma che a me arrivava come una minaccia alla doverosa imparzialità dell’insegnante. Che ne avrebbero fatto della mia verità? Quanto avrebbe influito sulle mie interrogazioni? E sul compito in classe? E soprattutto, dichiarando di essere una caparbia primogenita con un fratellino e una sorellina, cosa ne sarebbe stato del mio primo viaggio immaginario? Sarei poi riuscita a prendere un treno da sola?
Che odio quelle facce stupite innanzi a chi diceva “sono figlio unico”.
“Figlio unico?”.
“Figlio unico” .
“Hai ben quatto quattro sorelle?”.
Fu così che, nonostante l’amore per mio fratello e per mia sorella, la professoressa di musica seppe che io ero figlia unica, quella di disegno che avevo 11 fratelli senza appartenere ad una famiglia neocatacumenale, quello di educazione tecnica che ero la terza di tre gemelline di cui una addirittura, bionda.
Vi lascio immaginare la delusione di mamma quando ai colloqui con i professori apprese di avere una figlia bugiarda.
E sì, fu con le mancate verità che mi guadagnai il mio primo treno in partenza.
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